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Ci stavamo scrivendo in merito alla contemporaneità, a cosa fosse e chi fosse contemporaneo. Ma lui mi diceva che ho un viso troppo antico, che attraversa i Piceni, arrivando alla Belle Époque. Allora come si fa ad esser contemporaneo con questo Dna? Lasciando da parte il dilemma, affittammo una stanza di due metri per due, asettica. Nulla da descrivere: una stanza. La riempimmo di disegni e scritti accatastati, senza rigore, fronzoli e smancerie. Sfidando la sorte decidemmo che un nostro simile sarebbe stato colui che, entrando e chiudendo la porta alle spalle, avrebbe tracciato la fine del racconto con il resto, per calarsi nel generoso spazio dal senso perduto. Ci sono persone che sono contemporanee al proprio tempo come un paio di scarpe ben aderenti al suolo. Persone che per fortuna o per celia, incalzano un altro passo dal tempo, vivendo ancora un' altra inquietudine. Una pietra, un legno, le curve del paesaggio, si barricano silenziosamente tra questi camminatori, bussole del mondo.
Ed è grazie a questi buon temponi, che di rado fanno aderire il tempo al proprio viso, permettendo alle carte di rimanere carte disordinate e lasciare il concetto ai concettualismi dei concettuali.

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Venezia non è nata bizantina. Venezia non è mai nata. Non ha Goti, Franchi, Unni e prima ancora Mori. Non ha processi e non intende stratificarsi perché ha preso il crocifisso e l’ha inchiodato, all’ultima fermata. Ha schiantato dal collo ogni Rosario, senza possibilità di ottenere indulgenza. Generando tabarri perlati. C’è il profumo del vento che non schiarisce mai i pensieri, ma li spinge in fondo, escludendo la via di ritorno. Le nostre notizie sono racconti che si svuotano all’istante, per lasciare il passo alla valigia sotto i piedi. È in questo luogo che governano le comete e le persone che m’han preceduto. Stratificazioni di volti che passeranno e sceglieranno, di chi, a suo modo, ha tenuta a braccetto un altro. Gabbiani all’impazzata. Di più. L’Albatro che prende le vie ascensionali dei ritmi mediterranei, spiegando le ali goffe e timorose oggi, spericolate e spregiudicate domani. Ali troppo estese per non toccare le feritoie allineate. Re del cielo, catturato e deriso dalla ciurma in questa lirica di opposizioni. Tiene duro e disprezza il mediocre, difendendo ogni spazio e nessun letargo. Sono tentativi di vita e attimi indicibili. Ma, infine nulla è andato storto, perché questo non è mai nato, ma l’hai baciata, proprio in bocca. Con lo schiocco.

Comprendo adesso che, ciò di cui discutemmo dopo, fu essenzialmente inutile. Forse allora lo intuii; per non contraddirlo mi appigliai a un dettaglio e gli chiesi se davvero credeva che le lettere fossero apocrife. Disse che quel lavoro era leggero, che c’era sempre un animale da soma che portava tutto il necessario, e che, se non avesse fatto il mandriano, non sarebbe mai arrivato fino alla Laguna. Non erano religiosi, ma conservavano nel sangue, come segni oscuri, il duro fanatismo del calvinista e le superstizioni dell’Indio della Pampa. Gli venne in mente, che nel tempo, gli uomini hanno sempre ripetuto due storie: quella di un’imbarcazione sperduta, alla ricerca di un’amata sola, nei mari del mediterraneo e quella di un dio che si fa crocifiggere sul Golgota. Ormai non è più un uomo ma un dio, e chiunque lo può uccidere. Il poeta, se può, cerca rifugio negli arenili del Nord.

I SERVIZI

I SERVIZI

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Caro Cesare,
Ti riprendo a parole dopo immancabili lacune e pagine prive di note. Officiante o sciamano, la tunica è a suo modo imbrattata di macchie rosse. Nelle sue lettere, Caterina da Siena aveva scritto: “vestitevi di sangue”; e dove? Dove fu fitto il gonfalone della croce. Viandante delle forme, faccio di ogni terra incontrata la stazione di un periplo infinito, consapevole del viaggio longitudinale in cui cadono monumenti e fili d’erba. Ero avido, di simboli e di visioni, nutrivo la gastronomia dell’occhio per dispiegarne l’infinita ricchezza, fatta di cose concrete e anche povere, ora polvere. Per questo ti riprendo a parole. Il momento dell’agire è cancellato: come nelle tragedie greche, dove tutto già accaduto e può essere solo raccontato. Ho perso gli archivi di ogni stagione ma mantengo i sillabari e i suoni delle vocali tutte, più o meno efficaci e nitidamente profilate, se vengono ravvivati dall'arte sapiente del maestro. Echeggia il rombo dei cori e Cesare trionfi tra pulsioni animalesche e mi rubi dal grigiore dell’esistenza quotidiana. Ti rinnovo l’appuntamento sul sentiero della visionarietà; per l’intreccio dei segni che nella perfetta sfera, depositava la nostra verità.

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Caro Cesare,
riprendo tutte le dinamiche lasciate da parte dopo aver scelto il sacrificio del giorno anziché il sacrificarsi di una vita. Poiché la linea di ogni saluto rimane sconnessa da quella precedente, chiamammo in causa una schiera di soldatini di piombo, invisibili, con l’urgenza di un’avventura impareggiabile e di un battello ubriaco che, mollati gli ormeggi lungo fiumi imperturbati, si è immerso nel poema del mare, infuso d’astri. Lattescente e sregolato nella percezione di tutti i sensi, spinto dall’uragano fino a trovarsi sfiancato sul proprio scafo, appuntando così, il rimpianto di antichi parapetti. In questo tentativo di resilienza forse capisco la casa in collina, quella brulla, che torni a girare, alla lunga illusione di un racconto, aderendo alla possibilità di partecipare alla storia senza più compromessi o giustificazioni. È la fuga che tenta invano di chiamarsi casa, salutandosi e vestendosi di un nuovo inizio. Le schiere conciliano il sonno, come involucri di carte sedimentate nel tempo, cariche di troppo e dimenticate d’essersi detto tutto.

Mi hanno riferito da poco, che tendo a trattarti male. Cesare adorato, è proprio vero che gli idioti non stanno fermi un attimo. Ma così mi pare eccessivo. La memoria non è in grado di restituire fedelmente il torbido capriccio dell’ubriachezza, e nello sforzarsi si stanca. La faccio breve. Madida di sudore, inappagata sotto il cielo di pece. Tu hai questa qualità rara, di ghiacciarmi come l’inalterabile diamante di un dizionario. Poiché non sono un verbario, poiché non afferro ancora la lettera che vorrei essere, mento fingendo di voler essere, punivo quell’impostura, disintegrando le mie parole nell’incoerenza, aspiravo al mutismo. Scimmiottando. Ma sempre immobile, vergine d’opera, serrata sul nulla della lenta metamorfosi domestica in cui oggi è sparita, quella mano che non tracciò mai alcun verso. Vedi Cesare, si può dire qualsiasi cosa si voglia dire, resta il fatto che si, mi sento molto idiota ma no, non ti tratto male, ti snervo.

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La notte del sei ottobre, Cesare, avevi preannunciato l’amara confessione del tuo tracollo dinanzi all’atroce scoperta dell’abbandono da parte di una donna con voce rauca e cupa. A modo tuo sei entrato nel gorgo e ti neghi all’esperienza dell’agire. Di volta in volta cerchi di intendere che cosa pensi, ma è solo après coup e vai a riscontrare gli addentellati con giorni antichi. È intollerabile sentirsi stanchi, esauriti e sterili come un fucile sparato, ma hai sempre mirato più in là, a un valore oggettivo; un bene. Di qui, il tuo rancore per chi se n’è andato; di qui la tua facilità a trovarti un nuovo patrono e non per cordialità. Ma non basti da solo, e lo sai. Quando passerai una giornata ad implicare te stesso allora potrai chiamarti eroico e nella stessa pagina potrai annientarti, essere un Cristo. Ma forse Cesare, l’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole - se morire si deve - morire con valore, con clamore, restare, insomma. Eppure sempre è allacciata la volontà di morire, di sparire: forse perché è tanto prepotentemente vita che, sparendo, la vita sarebbe affermata ancor di più?

Era forse il gioco più vecchio. Ma non era un gioco, dunque ci siamo chiesti cosa fosse un gioco, e cosa volesse dire giocare. Il palloncino gonfiato con fiato umano, possessore dello spazio, era condannato ad evitare ogni materia, passando di mano in mano, vittima di una situazione temporale sospesa tra cielo e terra. Improvvisamente era tutto: stella, mondo, scrigno, essenza, rigore. Tra quella plastica sottile contenente il fiato era depositato un obiettivo infinito che sarebbe terminato a gioco finito. Da un corpo sfinito. In quella danza leggera e vagamente aerea si era più ricchi del denaro, e lo sguardo proiettato verso l’alto, inseguito dalle risa, sguardo che aumentava tra il passo e il salto, aumentava sorpreso di cogliere quei dettagli sempre perdibili, in alto tra i palazzi d’epoca e i riccioli delle nuvole. Forse non stavamo giocando, eravamo calamite d’una scoperta vitale e arcana, ma quando il tempo mi ha fatto uscire dalla porta, ho pensato che avrei voluto giocare ancora.

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Una vera e propria distinzione temporale tra quel che c’era e ora, non c’è. Era una corsa affannata sui ballatoi delle fondamenta, ci siamo rincorsi per diverse ore. Era un modo per fotografarsi da vicino e riguardarsi increduli, accompagnati da ovvi vizi giovanili. Quando il buio calava ti facevi chiamare con un nome femminile, girando su te stesso, amante delle stelle e delle bolle di sapone. Con la magrezza toglievi l’ancora da terra e salpavi da un muro a un altro, come un suono. Dinamico e forte, senza corpo. Ora che non c’è un’ora non ricordo se fosse mattino, i riverberi nella superficie dell’acqua, proponevano dei continui mandala concentrici fino alla linea incerta del ponte. Era un continuo gioco simmetrico, di riflessi, vani e pendenze, lo scorcio di una città in miniatura, assalita da occhi divoratori e spregiudicati. Ma era l’inizio, appena più convinto d’esser veramente nato.

Appena fatto un passo al di fuori della luna, ero fuori dal tutto, con un passo il mondo era dentro di me. Mi trovavo indiscreto di fronte a quello spazio poderoso, poiché io il solo. Bisbigliavo camminando, alla ricerca di un qualcuno, fratelli, amici, madri, padri, animali, dove siete? L'eco neppure decise di graziarmi con la sua accondiscendenza, il silenzio pareva governare più di qualsiasi altra forma. Piegando le gambe cado in ginocchio volontariamente sulla breccia lunare sperando di aver bucato le ossa, sperando in un dolore più intenso. Dovevo svegliarmi da un incubo, non potevo essere veramente lì. Le ginocchia sanguinarono lievemente, ma ciò non bastò a farmi urlare e farmi sentire, ma sentire da chi? Una condanna essere esiliato sulla luna, vittima fortuita della guerra dei miei sogni, mi sale agli occhi l'idea della breccia di Porta Pia per la breccia sulle ginocchia e per un regno che conquista una capitale. Compresi così, che qui potevo conquistare me solo. Di pensare ero stanco, non facevo altro, temevo il tempo e di conseguenza la vita. Per un istante la mia immortalità. Sarei sceso sulla terra qualche minuto a raccontare che la luna non è idilliaca e melensa come viene decantata, bensì logora sino al limite dei quesiti più penosi. Passai i miei giorni ad obliare la gravità e la poesia, esercitandomi con la convinzione che ovunque sia stato, tra terra e luna non vi era differenza; la solitudine era la mia tana.

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Al tramonto, ogni città subisce un dono, alcune, in particolar modo. I rilievi si fanno morbidi con più forza, più sinuosi i capitelli, decisi i cornicioni, le nicchie più profonde, gli angeli più aerei e l'aria si condanna per non essere eterna.
Piove e nemmeno l'Onnipotente impedisce questa discesa, l’occhio acquista un’autonomia simile a quella di una lacrima, per questo i liquidi sono una forza superiore, impietosi di fronte alla staticità degli oggetti terreni. Il sangue, l'acqua, i liquidi tutti mettono in discussione il principio d’orizzontalità, creando con il buio il lungo selciato. Rimane l’odore, dopo tutto, come violazione dell’equilibrio su cui si regge l’ossigeno.Dietro un banalissimo vetro rimaniamo più fedeli a questo tempo transitorio.
Cesare scrive, come suo solito, l' atmosfera lo facilita per dare il meglio di sé. Non è un’esteta e nemmeno un filosofo, soltanto un uomo nervoso, per effetto delle circostanze e dei suoi atti, è un osservante. Accompagnato dall’accendersi di una scintilla sull’orlo della pupilla nocciola e subito proiettato in alto, verso l’argento baluginare della Via Lattea, la risposta alla sua domanda, forse lì, nel cuore della sua civiltà, l’ingegno a filtrare i tanti riflessi, tra i quali il suo. Ristoranti, bar, negozi, edicole chiudono i battenti, solo le luci delle insegne rimangono narcisisticamente accese a dimostrarsi uguali a ieri. Chiese e gocce perdurano nella restituzione dell’anonimato.

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Lui le avrebbe fatto fare l'università del mondo. Proprio lui che, dalle prime tre parole, comprendeva lo stato di una persona, tanto da trarne sorti conclusive, i più le avrebbero definite: affrettate. Ma lui era così, non c'erano dogmi plausibili all'orizzonte, nulla di spiegabile, per un uomo che, si era fatto sulle proprie gambe, costruendosi culle di perché, di idee non valutabili, di giochi persuasivi tra cantinelle e bulloni. Lei era ancora piccola, troppo piccola per immaginare cosa proponeva la breve galassia della vita, annusava però la cognizione del timore e dell'inadeguatezza. "La ragazza dovrà essere, dovrà fare, dovrà diventare", diceva lui, senza ombra di dubbio e senza pisciare fuori dal vasetto. Lei doveva essere quel che lui non aveva potuto, non aveva guadagnato, doveva essere la sua mancata frustrazione, la sua lieve carezza tra i calli color tabacco. Mani prodigiose, talvolta eccessive, tanto da lasciare le parole oltre la punta del naso. La signora appoggiata al bancone aveva poco da fare e la serata si prospettava pigra, l'unico impegno le sembrava dunque ascoltare. Ascoltare le parole di un padre affannoso e ansante nel pianificare i sogni di sua figlia. La bimba non seguiva i discorsi articolati e vertiginosi dell’uomo, che, rimaneva a ogni modo, una figura poderosa tra le leggende degli orsi e i cobra. Era piccola e fantasticare era lecito. Silente pensava, fissando il tombino nel cemento. Lo scrupolo le pareva distante anni luce, preda del caso e delle folgorazioni, sapeva che prima d'esser figlia di suo padre era figlia delle sue domande.

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Non intendo distogliere lo sguardo dal vetro del bicchiere, pacatamente mi tiene quieta con il suo filo invisibile; lo sguardo e il vetro: strano gioco d’intenti. Piove, qualche goccia potrebbe anche entrare nel vetro, fosse il modo per riempirlo. Il cane dorme, fa finta, per non entrare nella relazione intima che mantiene tesi i fogli bianchi e meno bianchi sopra di lui. Lo incorniciano come fosse una tela dipinta a olio, scena da caccia di fine Settecento. Cesare è uscito presto lasciandomi un biglietto scarno sul pavimento, doveva trovare ispirazione altrove, quella che io ho smesso di donare. Ho venduto l'ultimo specchio per evitare la superficie e appannare il fondo. Vacilla la mano, questa immobilità strugge e poco inventa, la concentrazione sta mangiando i nervi, i piedi danzano e la pelle si tinge di freddo. Lui non tornerà e se torna tutto prenderà un’ altra piega. Temo ma mi disinteresso al cambiamento che sa di ferro e primavera; vorrei quella porta non si aprisse mai. Non aspetto altro che si spalanchi nuovamente, ma ti prego dormi ancora tu. Il bicchiere davanti mi è fedele come il fiato, non lo tocco, mi esalta, sfianca, mi torni alla memoria sbattendomi in faccia il sapore di quell’ultima notte: solo il timido lenzuolo. Interrompi il silenzio, questo pieno e vuoto sta sfibrando il filo.

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Il giovane Maestro, poiché poetico e senza riserve, si trovava in nave, quella stessa che da Istanbul, lo avrebbe poi portato a Brindisi per poi approdare a Venezia. Teneva sotto braccio una notevole mole di pagine scritte a mano e alcune battute a macchina, nonché l'introduzione per la sua tesi di laurea, che avrebbe, molto probabilmente, trattato un poeta turco ben noto, autore della poesia: Il più bello dei mari. Senza ombra di dubbio il giovane Maestro attraversava in modo metafisico uno stato poco condivisibile col resto del mondo; deliziato da una condizione per lui fondamentale e sensibile, inesistente e superflua per la sorda platea. Seduto al tavolo, vicino al cassero centrale della nave, beveva Coca Cola con ghiaccio e limone, brezza e fogli sotto braccio, sempre gli stessi. La virtuosa aura, effluvio d'odore buono e mitezza innata viene distratta da un gruppo di giovani circensi che, con aria beffarda e irridente, gli sbattono sopra il tavolo un bicchierino di raki: bevanda da veri uomini, a loro dire. Non disdegnò e dopo il primo, venne il secondo e poi il terzo sino a perdere i conti. Di quanti, dei quali. Sempre nei suoi panni, solo meno lucido, si avvicina sull'orlo della nave assieme alla combriccola per ridacchiare e farsi scudo degli schizzi in volto. Una miscela di caratteri e modi di vivere. Benché con una dose in più di raki e di confidenza che poco si notava ormai, si alternavano pacche sulle spalle, stridenti risate e abiti umidi, mantenendo il braccio sempre ben saldo alle sue pagine care. Quando alza lo sguardo dritto verso il cielo, chiamò i ragazzi a gran voce, invitandoli a guardare quei gabbiani bianchi semi liberi e complici di volo. Si accorsero pochi istanti dopo che quei gabbiani altro non erano che pagine, quelle stesse che credeva insostituibili. L’unico a parlare, per una volta più degli altri fu proprio il giovane Maestro. Emozionato per quei gabbiani semi liberi che forse sarebbero divenuti liberi sostenuti da quelle pagine incompiute.

Milano, ore 12

Cesare è fuori, a correre. Aveva ancora gli occhi lucidi, gli occhi di chi, non si è fatto bastare la mattinata per far passare le scie dei fasti giovanili. Fasti si, giovanili no. Cesare non crede di appartenere, ma appartiene perché crede. Del suo esistere, si discute di tutto, motivo per cui, non potrebbe mai dire al suo prossimo, che le ruote della bicicletta son due. Percorrendo la strada della Via Negationis, abbracciando che il tutto possa essere totalmente altro, Cesare acquisisce forza e slancio. In questo disimparare di conoscere, io svengo. Cado, scivolo, sprofondo, m’immergo nell’immenso perché m’inganno. Di aver capito, d’aver compreso altre ragioni, lontane dal mio circondario, lontane dagli occhi della memoria, per stringere Cesare più intensamente con gli occhi rossi, per sollevarsi insieme, immortalando questa mancanza; che possa mancarti sempre proprio come ti manco ora.

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In memoria.
Di una sera in primavera.
In una sera di primavera.
Si diceva qualche ora fa con le labbra distese da sorrisi che non accennavano andarsene, di quanto fosse bello esserci tutti, insieme, spassionatamente, nessun intento di andar via. Quella stessa complicità poi, intelligentissima che alterando l'espressione dei visi ha foggiato un filtro luminoso tra la retina del nostro occhio e la realtà. La curata consapevolezza di esser prigionieri fisici recintati da poche parole, saperti seduta al mio fianco con te amico mio in fronte, cambi la traccia audio senza chiedermi nulla: ma lo fai e lo fai bene. Motivo sufficientemente valido per dire che ci sei, maledetti noi, passa di mente sempre tutto, solo i funerali e i matrimoni si ricordano come incubi pungenti, ma i mari, i bordelli ed i chilometri incelofanati in sacchi come rappresentanti di una screditata quotidianità...chi lo sa dove vanno ad approdare. A porte aperte lasciati stupire piacevolmente, così è, siamo sotto un grande plagio e lo spirito d'adattamento è più forte di quel che credi, domani può esser più bello, fin qui: nessuna esitazione. Ma il ricordo poi, malinconico o no che tu sia, quello non si spiega e se ci provi lo crini tanto fino a rovinarlo, se lo spieghi lo perdi lo lasci, ma se ricordi e ricordi forte come se fossi in una costante apnea, anche il più innocente colpo di fiato è un taglio. Sarebbe bene aver una valigia possente come il mondo e metter dentro tutti, tutto quelli che ti hanno avuto, ma come un neo sulla pelle di vergogna ti prende il nodo alla gola nel dire che anche tu immotivatamente ti sei denudato d'ogni riserbo, un fiume in piena hai azzerato ogni pudore per dar segno all'invincibile, svuotarsi sentendosi vicini. Passi, passiamo, passerai, amara verità e la cosa che mi sfinisce di più sai qual'è? Che tu abbia dimenticato il mio odore, quando prima, scendevi in strada non appena ti pareva d'averlo sentito.
In memoria.
Di una sera in primavera.
In una sera di primavera.

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